Un unico rintocco cupo mi fa trasalire quando scendo dall'auto.
C'è il sole di una giornata di fine estate e sono le due del pomeriggio.
Il rintocco isolato richiama la gente del paese ed io, di nuovo forestiera, mi incammino dietro a loro.
La prima volta che sono stata qui fu lui ad accogliermi e lo fece con un grande sorriso.
Quel giorno per entrare in paese, se venivi da fuori, dovevi pagare il biglietto, ma io avevo un lasciapassare di tutto rispetto: suo figlio, e lui mi fece accedere senza farmi pagare l'ingresso. Ci presentammo e mi abbracciò con lo stesso calore che traspariva dal suo sorriso.
Avevo appena superato un esame all'università. Era marzo. Avevo vent'anni.
Ero lì per fare la conoscenza con coloro che, scherzosamente, chiamavo già suoceri.
Avevo vent'anni ed ero innamorata.
La festa ci aveva dato l'occasione. Come avrei potuto mancare. Carlo mi aveva fatto una testa così. Quando parlava della Festa dei falò di Rocca San Casciano, Rocca per quelli del posto, montava la cresta come un gallo. Ciò, era un rocchigiano orgoglioso e fiero di esserlo e se si metteva a raccontare della Festa non lo frenava più nessuno. Io non potevo tenergli testa parlandogli della Fìra ed San Làzer, con le bancarelle della Piazzola e i concerti di Cristina d'Avena.
Ero innamorata e pendevo dalle sue labbra.
Quel giorno Carlo mi portò in giro per il paese, mostrandomi tutti i posti per lui più significativi, raccontandomi aneddoti e ricordi d'infanzia.
Non gli ho mai chiesto della Rocca che intravedo da dove ho parcheggiato. Mi accorgo con rammarico che l'ho sempre vista soltanto da lontano. Credo la chiamino "Castellaccio".
Sulle due rive del fiume i falò erano già pronti per essere bruciati. Apparivano come due caparbi condannati a morte e sarebbero stati giudicati severamente nella gara che li vedeva rappresentare i due principali rioni del paese: il Borgo e il Mercato.
C'era chi sosteneva che fosse più bello il pagliaio fatto a punta - mi diceva Carlo - ma di sicuro bruciava meglio quello dalle forme più arrotondate che, almeno, non rischiava di crollare dentro l'acqua del fiume, come era successo al falò del Mercato qualche anno prima.
Quella era la peggior disfatta, si continuava a riderne per anni e anni, nelle case, nei bar e nei capannelli in piazza, di fronte al Caffè Caprera.
Comunque, alla fine, il pagliaio del Borgo risultava sempre il migliore: si usavano "spini" di prima qualità, veniva issato con più maestria e poi stava sulla sponda sinistra.
Solo la sera scendemmo al fiume. Doveva essere il posto da cui si poteva avere una visuale migliore, in realtà era il luogo in cui si trovava il nocciolo più accanito del rione. Non c'erano i turisti venuti da fuori che preferivano fermarsi sulla strada per godere del panorama dall'alto.
Guardo attentamente prima di attraversare la statale, ma non viene nessuno. Il benzinaio è sempre al suo posto. Due pompe sul ciglio della strada col cartello "CHIUSO".
La musica era già alta e i ragazzi sventolavano la bandiera del rione con foga e baldanza. Come allo stadio gridavano slogan provocatori contro chi, quella sera, era il loro peggior nemico e solo l'indomani poteva tornare ad essere la fidanzata, l'amico, il parente più caro. Adesso potevano infierire con tutta l'aggressività che volevano, c'era il fiume a tenerli divisi.
Sporta sulla riva, vicino a me, c'era una bambina.
Mi colpì la sua testa di capelli rossi.
Anche lei saltava e urlava qualcosa alla gente accalcata dall'altra parte. Mi venne istintivo proteggerla dicendole di fare attenzione a non cadere.
Si voltò fissandomi coi suoi occhi chiari con aria di sfida, poi tirò fuori la lingua e scappò via ridendo.
Intanto il fiume non sembrava più un ostacolo invalicabile. Alcuni ragazzi si erano immersi vestiti provocando la fazione opposta: "Dov'è il Mercato? Dov'è il Mercato?…".
Vorrei andarci, dopo, sul ponte a rivedere quel fiume: il Montone.
Nonostante il nome così vigoroso non lo ricordo un fiume prorompente, ma piuttosto come un animale domato, di più, castrato, costretto a passare a ridosso delle case.
Il via alla festa venne dato dallo scampanio delle campane e poco dopo arrivarono di corsa gli uomini con le torce accese.
Cominciarono subito i commenti su come prendeva bene il fuoco, su quanto fumo nero usciva dal falò rivale.
Le lingue di fuoco si innalzavano sempre di più ogni volta che incontravano il combustibile. La presa era veloce e la cenere più leggera cominciò subito a volare portata dal vento.
Le fiammate, in tutte le loro fasi, sarebbero state esposte nella vetrina del fotografo del paese insieme agli altri momenti della festa. C'era ancora tempo per criticare e fare confronti.
I due fuochi adesso erano un grande spettacolo di figure cangianti.
Quello era il momento più magico della festa, il più antico, il più tribale.
Spio con la coda dell'occhio le persone a cui passo a fianco, ma non le riconosco. Sembra come un dejavou: la senzazione di essere già stati in quello stesso luogo è forte, ma si fatica a crederci.
Partirono i"botti". Veri e propri filari di petardi coperti da una rete, perché l'ultima volta, nell'esplosione, era volato un sasso che aveva ferito alla testa uno di qualche paese vicino.
La gara stava nel farli durare più a lungo, ma soprattutto nel fare più casino.
Non erano fuochi d'artificio, niente per gli occhi. Era un bombardamento, una tortura per le mie orecchie che tenevo tappate forte con le dita. In tasca avevo anche del cotone idrofilo che previdente Carlo aveva voluto che portassi con me per proteggermi da quella sparatoria. Quando finalmente lo strazio finì mi domandai che cosa ci trovassero di così spassoso e quanti decibel di udito avessi perso.
Ora non c'è frastuono, solo i miei passi silenziosi e quei rintocchi dilatati nell'aria che mi fanno sentire i brividi.
Ci incamminammo verso il centro del paese per vedere la sfilata: la terza ed ultima sfida della serata. Costumi sfarzosi e grandi carri entrarono in piazza. Roba da far concorrenza ai carnevali più rinomati e tutto creato nel corso dell'anno dalla gente del posto.
Giovani e meno giovani che aspettano quella sera per essere protagonisti e mettersi in mostra con costumi osé, balli sfrenati, camminando sui trampoli o sfilando sui carri. Quelli che magari nella vita appaiono tranquilli impiegati, assennati padri di famiglia, casalinghe frustrate o timide fanciulle pssono trasformarsi nei personaggi più forsennati e pazzi dello spettacolo.
Una catarsi.
Lasciammo il pigia pigia della piazza e tornammo al fiume a vedere i resti dei falò.
Erano rimasti solo pali alti e spogli che sembravano tenuti in piedi dal mucchio delle braci ardenti. Qui l'atmosfera era più intima ma altrettanto suggestiva. Alcuni giovani sedevano attorno ai resti dei fuochi per riscaldarsi e accompagnavano i loro canti con una chitarra. Ci avvicinammo anche noi, ma Carlo mi raccontò che il palo, un anno, era crollato uccidendo un ragazzo.
In piazza c'era ancora tanta gente. I carri stavano sfilando per la quarta o quinta volta. Erano enormi, soprattutto a confronto dello stretto vicolo da cui erano passati.
Sono trascorsi molti anni e fa uno strano effetto camminare per quello stesso vicolo di persiane aperte e persone affacciate sulla strada, oggi incorniciato da palazzi muti e chiusi al caldo del primo pomeriggio.
Il rintocco è più vicino, sono arrivata alla chiesa. La maggior parte della gente attende fuori ai piedi del sagrato. Io entro.
Seduta su una delle ultime panche non posso fare a meno di pensare ancora, più che al padre al figlio, a ieri, a oggi e a che cosa ci sto a fare qui.
Anni a prenderci e lasciarci, a rincorrerci e sfuggirci, sentendo dentro una febbre che brucia ma dalla quale non si vuole guarire. Ho provato per lui un'attrazione così forte da non rispondere di me stessa e ritorno da amica come se nulla fosse stato.
Anni a sforzarsi di prendere confidenza con una comunità in cui tutti si conoscono, tutti si salutano incrociandosi per via, tutti sanno tutto di tutti e poi ritornare straniera, senza riconoscere nessuno.
Sta entrando la bara e mi volto lentamente.
Mentre chino il capo nel segno della croce, lo vedo.
La sua figura spicca sulle altre inconfondibile.
Con gli anni si è fatto più bello. Quando lo conobbi era allampanato, tutto pelle ed ossa. Sul viso spiccava solo il naso e il sorriso di suo padre. Camminava con quella particolare andatura tipica del "giandone". La montagna dentata lo chiamava la mia amica.
Mi sembra di avere ancora vent'anni e il cuore che batte forte. Mi sorprendo a mordermi il labbro inferiore come faceva lui e mi ritrovo addosso tutta la sua sensualità.
Alla fine della funzione mi avvicino timidamente, ma appena mi riconosce mi prende la mano e continua a tenermela stretta mentre saluta i conoscenti venuti a fare le condoglianze.
Poi: "Grazie di essere venuta. Vieni ti presento Maria".
Lascio a malincuore la sua mano per stringere quell'altra sconosciuta. E' molto giovane e ha una testa di folti e lunghi capelli rossi. Nei suoi occhi chiari c'è un'aria di sfida e passa come un lampo che vorrebbe fare di me un falò.
Mi congedo in fretta da loro. Mi soffermo a rivolgere un ultimo saluto a chi per primo nel paese mi accolse con un sorriso. Poi esco dalla chiesa.
La gente è stretta a ferro di cavallo intorno ai gradini del sagrato.
Cerco un varco e torno alla macchina.
Un ultimo rintocco funebre mi raggiunge mentre sto per lasciare il paese.
Elena.
febbraio 2003
1 commento:
Ciao Nu, e grazie per il tuo ricordo.
Spero di rivederti alla festa, una volta o l'altra.
Con affetto.
"Carlo"
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